Noi

Gabriele Anello
11 min readNov 26, 2021

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Bello questo giochino, vero? Per essere una repubblica parlamentare, diamo un peso veramente eccessivo all’elezione del Presidente della Repubblica. Una grande lotteria nella quale si arrivano a votare Ezio Greggio e Giancarlo Magalli — pesco fior da fiore dall’ultimo giro nel 2015 — e che all’epoca evidenziò la querelle Napolitano. Prima dimissionario inconvincibile, poi rieletto per “il bene del paese”, prima di lasciare spazio a Mattarella.

Se vogliamo sorvolare sulla statura del personaggio Napolitano (una postilla sul limite di un mandato presidenziale la metterei in Costituzione) e su quanto Mattarella mi abbia stupito in questi ultimi anni (passato dal piattume più totale alla gestione di uno dei periodi più complicati della storia repubblicana), la grande partita per il prossimo PdR è già iniziata, ancor prima di chiudere la finanziaria e discutere che ne sarà del Green Pass.

Perché siamo fatti così: di fronte ai grandi eventi — che si parli degli italiani o degli esseri umani più in generale –, ci si ferma e si contempla quasi meravigliati. Non è diverso per la quindicesima elezione della massima carica italiana (in termini rappresentativi), che si intreccia però con altri sottili equilibri: la gestione del COVID, gli equilibri di una maggioranza “friabile” e il governo Draghi, che ha le ore contate una volta che finirà lo stato d’emergenza.

“Per fare una partita alla Repubblica / occorre essere iscritti a una compagine politica / ce ne son decine tra cui scegliere a seconda del colore / anche se ultimamente il nero va per la maggiore”.

Dal canto suo, Mattarella ha già fatto sapere che lui di rielezione non ne vuole sapere. Forse con una saggezza e un pudore diverso da quello di Napolitano — che ha attraversato la storia repubblicana a colpi di incarichi –, l’attuale capo dello stato si sta già preparando per la porta d’uscita. È normale che in questo momento si parli di tanti candidati, si facciano tanti nomi. Come al solito.

C’è l’ipotesi di una “svolta sudamericana”, in cui Mario Draghi possa con una mano fare il capo del governo e con l’altra diventare il nuovo capo dello stato (Left ha già espresso bene cosa ne penso). Ci sono tante ipotesi: Giuliano Amato (ma ancora ne parliamo?), Daniele Franco (l’attuale ministro dell’economia), Gianni Letta (Franco Carraro non era disponibile), Marta Cartabria (attuale ministro della giustizia) e persino Pierferdinando Casini (è la volta buona che brucio il passaporto).

Ma c’è un candidato silenzioso, o che quanto meno lo è stato per un po’. Sembrava quasi uno scherzo: chi, lui? Presidente della Repubblica, ma dai? E i processi? I legami con la malavita organizzata? L’evasione fiscale? I rapporti con le minorenni? I continui imbarazzi con la comunità internazionale, la personalità da megalomane, oltre a una salute deteriorata e l’apparenza di una tartaruga lasciata al sole?

Quando qualche amico mi pitturava questo scenario durante la seconda ondata della pandemia, ridevo. Ora meno. Mi sembra improbabile, ma proprio per questo possibile. Da figlio della Seconda Repubblica, ho capito che se Silvio Berlusconi gioca a fare il modesto, è perché ha delle carte in tasca. E se lui stesso arriva a schernirsi, dicendo di avere il 10% di possibilità, tremo: nella mia testa diventano almeno il quadruplo.

Ma perché tremare? E perché prepararsi al peggio se così improbabile? Perché la sua bislacca vicenda da “statista”, in un certo senso, prefigurerebbe un finale del genere (poi sugli articoli dell’Huffington Post, forse, tutti tenderemmo a un gesto scaramantico).

Da dove venivamo?

Non dobbiamo dimenticarci una cosa: viviamo nella Terza Repubblica. Non è seria come la Prima e non è idealistica come la Seconda, ma è polarizzante e camaleontica (rasente il paraculo). Ve lo ricordate il Conte I e il Conte II dei fratelli gemelli che non si parlano? O la Lega che appoggia il governo Draghi? O il Movimento 5 Stelle che riesce a smentire linee guida di un decennio una volta entrato al governo?

Il 2021 ci ha regalato l’ennesima perla de Il terzo segreto di satira con “Domino”, ma questo spezzone è stato l’apice.

Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, cantava Venditti. Vico l’aveva messa giù in maniera più quadrata, ma il concetto è lo stesso: così come l’Italia post-guerra negli anni ’40 lasciava spazio al Fronte dell’Uomo Qualunque creato da Guglielmo Giannini — un concentrato di populismo, qualunquismo e antipolitica –, alla fine siamo ripassati dal via nell’ultimo decennio.

Ve la ricordate la scatoletta di tonno, i “percorsi democratici belli belli” e “Mi sembra di essere a Ballarò” in diretta streaming? Anche per i più ottimisti e speranzosi, il Movimento 5 Stelle è stata una delusione totale. Una dimostrazione ulteriore di come la pragmaticità della realtà ti mangia facilmente se non hai struttura o un filo di coraggio (bastava una delle due, eh).

Sono lontani i tempi dei consensi oceanici, quando stare all’opposizione era facile. Quando i decreti-legge erano politiche insopportabili che svuotavano di senso l’istituzione parlamentare (infatti il governo Conte II è stato l’esecutivo a usarne di più nella storia repubblicana, complice anche la pandemia). Quando tutto sembrava risolvibile con uno schiocco di dita, un bel programma e la logica.

La politica, purtroppo, si rivela ben altro: fatta di compromessi, di circostanze, persino del momento giusto per la giusta proposta (guardate la finaccia fatta da Ius Soli e DDL Zan, in due momenti molto diversi per il Parlamento). Dal 25,56% alla Camera del 2013 al 17,07% delle Europee di appena due anni fa, c’è stato un crollo verticale, che non si è tradotto in nulla di veramente concreto, che abbia radicalmente cambiato il destino di un paese in declino.

“Nella schiena dei partiti affondò le unghie: / “Io non sono di destra nè di sinistra, sono un uomo qualunque! E lo stato è demagogo, nel sistema bipolare non mi ci ritrovo”. / Oh, ferma tutto! Devo aver avuto un herpes / Dato che questo sfogo non mi è nuovo.”

Ma se il Movimento 5 Stelle passerà — probabilmente nel 2023, al prossimo giro: giusto quando la tua nuova guida è un docente universitario che non era nessuno nel febbraio 2018 ed è stato oggetto di un culto che ha del malato –, i suoi effetti rimarranno. E paradossalmente, gli italiani hanno preso troppo alla lettera il significato di “tutto è possibile”. A pensarci di questi tempi, non è più una frase con un connotato positivo.

Una disgrazia col sorriso

E qui torniamo al protagonista della nostra storia, che sembrava finito. Oddio, lo è sembrato troppe volte: dopo il crollo del suo primo governo nel 1994 e in seguito alla prima vittoria di Prodi nel ’96. Dopo la sconfitta — di nuovo contro Prodi — a un decennio di distanza dalla prima, in seguito alle dimissioni del 2011 e dopo la condanna per frode fiscale nel 2013. Quante volte l’abbiamo detto?

È la volta buona che è finita per lui”. E invece no, mai: Silvio Berlusconi ha creato un incavo nella mente degli italiani troppo profondo perché si potessero dimenticare di lui. Lui, che ha di fatto sfruttato gli anni ’80 — fatti di consumismo, socialismo liberale e tivù private — per fare un’operazione culturale che ci ha segnati per sempre. Purtroppo.

“E alla scuola elementare, furbetto e lesto / Trafficavo sottobanco quello e questo / Una volta condannato ricorrevo in appello / Poi venivo protetto dal mio gran maestro”.

Il problema dei cambiamenti culturali è che sono come l’ambiente: non li vedi subito, ma quando entrano in circolo, non te ne accorgi nemmeno più. Un candidato illegittimoc’è una legge del 1957 che proibisce ai titolari di concessioni pubbliche di essere eletti –, che è sfuggito alla mannaia della legge grazie a trucchi, sotterfugi e il grande classico italiano: la mancanza di controlli (o anche solo della voglia di effettuarli).

Si potrebbero elencare tanti momenti imbarazzanti di Berlusconi nell’agone politico. Personalmente, a 32 anni, ho capito che le gaffe e i momenti da classico guascone italiano mi infastidiscono meno; è l’imbarbarimento culturale e l’ignoranza generata come standard da rispettare — anzi, da invidiare — che mi fa venire il voltastomaco. Il pensiero acritico e di pancia come risposta immediata e iper-semplicistica a qualsiasi problema.

In fondo, una costola di questo ragionamento è anche quello che ha permesso ai sopracitati 5 Stelle di proliferare alla lunga.

Il capitolo Luttazzi

Di Daniele Luttazzi avevo già parlato, ormai quasi quattro anni fa. Lo feci nel marzo 2018, alla vigilia delle politiche, perché mi stupiva come la sua prospettiva fosse ormai vecchia di almeno dieci anni, ma rimanesse comunque attuale per leggere la realtà di allora. Nel frattempo, Luttazzi è stato usato come paravento dalla Rai di Freccero ed è tornato con una rubrica brillante su “Il Fatto Quotidiano” (purtroppo ancora niente show).

Il massimo che abbiamo visto di Luttazzi da una ripresa video nell’ultimo decennio.

Perché però è importante citare Luttazzi in questa sede? Per due motivi, credo:

a) In un paese che dà costantemente seconde chance, Berlusconi e Luttazzi si collocano esattamente ai due opposti di uno spettro inquietante. Da una parte, c’è un pregiudicato che ha avuto qualsiasi cosa perdonata da un popolo chiaramente in cerca dell’uomo forte, sempre e comunque. Dall’altra, un comico e una persona di cultura — lontana dall’italiano medio di questi tempi — punito alacremente nell’arco di un decennio.

b) Quello che accadde in una fredda sera di primavera del 2001 in uno studio Rai di Roma è stato uno spartiacque nella vita di entrambi. Ma se di cosa quella sera abbia rappresentato per Luttazzi abbiamo già parlato, nessuno si è mai troppo concentrato su cosa avrebbe potuto rappresentare per l’altro.

Ancora una volta, però, Luttazzi si prende la scena quasi in veste da indovino: essendo un suo avido fan, mi capita di rivedere ogni tanto i suoi spettacoli. Lo faccio quasi come terapia, per ricordare a me stesso sostanzialmente due cose:

a) Esiste un’Italia migliore nei cittadini che la popolano, specie se nascosta in coloro che vengono ostracizzati, in contrapposizione a chi si presta invece benissimo al selfie o alla camera di turno (Luttazzi aveva profetizzato questo rischio con Grillo appena dopo i V-Day).

b) “Tutto si tiene”, per usare una famosa citazione di Luttazzi. Vale per la storia, vale per la politica, vale per la memoria. L’Italia è un caso di studio esemplare in tal senso.

Un esempio? Satyricon, 2001. Il programma è ormai finito, ma Luttazzi porta il suo spettacolo in giro per i teatri, seppur con difficoltà notevoli. Il comico si lascia scappare una battuta che ha del genio, ma dell’inquietante a guardarla vent’anni dopo.

Il delirio culturale

Come detto, Berlusconi è una minaccia, ma lo è solo teoricamente. La galoppante ignoranza del paese (fatevi un giro sui dati INVALSI dell’ultimo anno), lo svuotamento di ogni senso di responsabilità e vergogna è già avvenuto. Non è il più felice degli interpreti, però mi è sempre rimasta impressa una citazione di Umberto Galimberti, sin da quando avevo 20–21 anni:

La vergogna è un sentimento fondamentale. Vergogna viene da vere orgognam: tempo l’esposizione. Oggi l’esposizione non la si teme più. E allora cosa succede: se io mi comporto in una modalità trasgressiva, beh, che male c’è? Vado incontro ai desideri nascosti di ciascuno di noi e li espongo, quanto son bravo. E allora a questo punto non sono più visibili con chiarezza i codici del bene e del male. […] Semplicemente se uno ha il coraggio anche di mostrarsi vizioso, se ha il coraggio anche di mostrarsi trasgressivo è un uomo di valore, almeno lui ha il coraggio, ha interpretato i sentimenti nascosti di ciascuno di noi. Questo ormai significa, non dico il collasso della morale collettiva, ma persino di quella individuale, quella interna, quella psichica.”

Questo sentimento è stato incarnato perfettamente da Berlusconi, che non a caso non costruisce il picco delle sue fortune non negli anni 2000 o nei ’90, ma negli anni ’80. Per citare Amedeo La Potta — personaggio fittizio inventato da Edoardo Ferrario — “il declino della civiltà moderna è iniziato negli anni ’80 […] noi si è così tanto meschini che non ci si ricorda di quanto fossero brutti quegli anni.

Corrado Guzzanti patrimonio dell’umanità, così come questo pezzo del 2002 ne “Il caso Scafroglia”: “Perché non lo prendete sul serio? C’è gente che si ammazza anche 20 ore al giorno per distruggere questo paese”.

Il consumismo sfrenato, agevolato dal socialismo liberale di Craxi — non per nulla, fido alleato di Berlusconi nelle stanze del potere –, servì sostanzialmente a nascondere un paese che non si era mai confrontato con i suoi fantasmi post-guerra. Un paese fondamentalmente patriarcale, razzista e alla caccia di soluzioni semplici, dopo che gli anni del terrorismo avevano posto domande difficili a cui rispondere.

Con la sua apologia dell’imprenditoria, la sua capacità incredibile di parlare molto senza risolvere nulla e una fortuna costruita in un modo che definire “oscuro” sarebbe l’understatement del secolo, Berlusconi si è presentato esattamente come il popolo italiano lo voleva: l’uomo della provvidenza, che non si vergogna di essere italiano nei tratti più beceri (e che anzi li incoraggia). Un narcisista da manuale DSM.

Grazie a lui, l’Italia ha perso parte della sua identità. Come detto, un lavoro era già stato fatto dai prodotti mediali di Berlusconi, grazie all’opera delle sue tivù e dello sport (con l’acquisto del Milan, usato come arma di scambio nell’agone politico). L’entrata in campo era la “Fase 2”, dove i destini di milioni di italiani erano solo una chip da giocare al tavolo personale di un pregiudicato a caccia di scappatoie per evitare i processi a suo carico.

In questo scenario, la persona onesta, dalla schiena dritta e dalla morale tutta d’un pezzo è stata messa in un angolo. Anzi, l’onesto è coglione, perché non si è adattato all’ambiente circostante. E quando quelle persone sono poi state risucchiate dall’ultimo decennio targato M5S — fatto delle stesse soluzioni semplicistiche, ma in salsa internettiana e con una cassa di risonanza come la rete –, il danno era già fatto.

Delle tante gaffe, l’unica che ha sempre stonato nella mia testa è stata questa. C’era talmente tanto in ballo che è dovuto scendere sul serio, seppur con un insulto.

Le elezioni e l’eredità

Alla fine, la grande eredità berlusconiana in politica è quella di aver corso in sette elezioni politiche e considerare cinque di esse un successo assoluto. Se escludiamo le due sconfitte contro Prodi nel ’96 e nel 2006 — non di molto, ma sconfitte sono –, Berlusconi è stato in grado di eccellere nell’unica fase politica in cui poteva veramente misurarsi a suo agio: quella delle promesse. Perché prima del voto non è necessario specificare che vadano mantenute.

Per il resto, cosa c’è di onorevolmente memorabile nella figura di Berlusconi, se stringiamo l’orizzonte alla pura legislazione, alla semplice politica? Fuori dai proclami, dalle sceneggiate e dalla comunicazione (arguta e malefica al tempo stesso), cosa rimane? Forse l’unica legislatura della storia repubblicana che è durata per intero con lo stesso uomo al comando. E poi? Poco altro, onestamente.

L’appartenenza alla P2. I rapporti con la mafia. Gli scandali a sfondo sessuale. La vergognosa gestione degli affari esteri (siamo andati in guerra TRE volte sotto Berlusconi: Afghanistan, Iraq e Libia) e di quelli interni (G8 2001 e l’Aquila 2009 su tutti). Le continue intromissioni nella vita economica del paese (facile fingersi liberisti quando si vuole l’oligopolio o, in alcuni casi, il monopolio assoluto sul mercato). Il cumulo di processi — interrotti, prescritti e ostacolati — pur di non prendersi le proprie responsabilità.

Solo per questo, Berlusconi rappresenta un pessimo esempio per l’Italia. Ma forse — e qui tocca amareggiarmi — ne rappresenta l’espressione perfetta: un paese che non ha interesse per il proprio passato (la memoria corta e danneggiata della nostra storia), per il proprio presente (intrecciato a una classe dirigente inetta, prodotta anche dalle conseguenze della sua ascesa in campo) e per il proprio futuro (stagnante, scoraggiante, senza speranze).

“Un murator venerabile disse: “Sei abile, vieni tra i miei! / Ecco il cappuccio e la tessera numero uno-otto-uno-sei” (uno-otto-uno-sei) / Poi anni di trucchi e di inganni, indicibili affanni, ma niente di che / Davo una mano a Bettino, ospitavo mafiosi, pagavo lacché”.

Un uomo che ha basato le fondamenta della sua intera carriera politica sulla dicotomia amore/odio rischia di essere (purtroppo) il miglior interprete dell’Italia di oggi. Un’Italia che — semmai fosse possibile — ha scavato più in fondo in quel tunnel evolutivo che Berlusconi ha iniziato a creare 40 anni fa.

Cosa verrà?

Molti si chiedono se è questo l’epilogo che questo paese merita. Alcuni dicono che non è possibile che questo accada, che c’è gente pronta a perdere la nazionalità se Berlusconi dovesse accedere al Quirinale nel febbraio prossimo.

Non fraintendetemi: questo pezzo non nasconde del timore verso l’ipotesi, per una serie di ragioni sconfinate. Tuttavia, a differenza di candidati veramente nulli (Casini è l’emblema perfetto), Berlusconi sta giocando una partita con lo stesso scopo di sempre: vincere, per il gusto di farcela ancora una volta, contro le possibilità e il buon senso.

Stavolta, però, l’endgame è diverso. I processi ci sono ancora, ma non andranno a termine. In politica, non c’è più molto da giocarsi: Berlusconi è diventato parlamentare europeo nel 2019, ma il suo tasso di presenze a Bruxelles è deprimente (59%, 32 punti percentuali dietro l’ultimo dei parlamentari italiani in questa legislatura). Al prossimo giro, nel 2023, Forza Italia sarà un lontano ricordo.

E quindi? Questa partita per il Quirinale a cosa servirebbe, se vinta? Mio personale e schietto parere: trolling. Puro e semplice.

Dopo una vita passata a usare la cosa pubblica e la politica per arricchirsi personalmente e scappare da procedimenti giudiziari, come sarebbe ironico — per Berlusconi, tragicomico per noi — vederlo eletto Presidente della Repubblica? Magari con funerale di stato e aria da padre costituente (alcune dichiarazioni già vanno in questa strada negli ultimi tempi).

“C’è il coatto che parla alla pancia, ma l’intellettuale è più snob / In base al tuo pubblico scegliti un bel personaggio, l’Italia è una grande sitcom”.

Proprio perché l’Italia è un paese dalla memoria cortissima, gli echi di Salvini, Meloni, Conte e del sempre morituro PD ci hanno in realtà fatto dimenticare da dove venivamo, cosa abbiamo vissuto. Il COVID ha solo accelerato questa dinamica. E chissà quel tunnel dove ci condurrà se prenderemo anche l’ultima svolta necessaria a scavare ciò che ci è stato cucito addosso in qualche ufficio di Milano 2 mezzo secolo fa.

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Gabriele Anello

Ha il passaporto italiano, ma il cuore giapponese | RB Leipzig, J. League Regista, Calcio da Dietro | fmr. Ganassa, DAZN, MondoFutbol.com, Crampi Sportivi