Vorrei umiliarti fra cent’anni

Gabriele Anello
15 min readSep 25, 2022

--

Anche noi in Italia abbiamo la nostra Mecca. E no, purtroppo non è per motivi illustri. Predappio è un piccolo paese dell’Emilia-Romagna. A pensarci, questo centro da 6000 anime non avrebbe molto da regalare, se non fosse per un motivo, uno soltanto: è stato il paese che ha dato i natali a Benito Mussolini. Incredibile come a più di un secolo di distanza dalla venuta al governo del fascismo continuino i pellegrinaggi verso Predappio.

E se il fascismo non se n’è mai veramente andato, è perché non è mai stata fatta una discussione seria al riguardo. Attualmente vivo in Germania, dove il nazismo non è stato estirpato, ma almeno i famosi processi di Norimberga portano una seria ferita sul passato teutonico, e il revisionismo non è possibile. Causa l’urgenza americana dell’attuazione del Piano Marshall, un paese il più stabile possibile e una rinascita foraggiata dall’estero, noi non ci siamo mai potuti permettere una discussione del genere.

A fine ottobre saranno 100 anni dalla marcia di Roma. Ed è così strano che la storia, il destino abbiano scelto per le elezioni questa finestra temporale. Saremmo dovuti andare a votare a marzo, con (probabilmente) le stesse incertezze di adesso, ma la caduta del governo Draghi ha spinto ad altre conclusioni. E così queste elezioni — valide per la 19a legislatura e con una legge elettorale schizofrenica, a esser buoni — vedranno probabilmente Fratelli d’Italia vincere il banco.

Sul quanto questa vittoria sarà netta, è ancora difficile esprimersi. Il centro-destra italiano da Berlusconi in poi è stato capace di grandi vittorie (2001 e 2008), salvo poi sfaldarsi internamente in entrambe le occasioni, producendo un rimpasto di governo o le dimissioni del novembre 2011. E non vedo come non possa succedere anche stavolta, ma c’è una differenza. Ed è pure grossa.

Nonostante il tentativo di ostacolarla internamente, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi si sono dovuti arrendere alla fine. Sarà Giorgia Meloni l’attesa protagonista della prossima legislatura. Alla fine, stare all’opposizione frutta, così come non mostrarsi veramente per chi si è. Tutto sommato, però, la Meloni è stata molto astuta — nonché fortunata — nel giocarsi le chip al momento giusto.

Due legislature all’opposizione, in silenzio, con coerenza (almeno agli occhi di elettori dalla memoria corta). Un partito nato nel 2012, che ha nei quadri dirigenti vecchi residuati bellici (La Russa, Crosetto, etc.) e in generale molti, moltissimi fedelissimi che sono lì dai tempi del MSI. Due regioni governate (e il caso Marche sta generando molta attenzione) e chissà quante ne avranno ancora, visto che nel 2023 cinque regioni avranno elezioni.

Quando però qualcosa di nuovo si affaccia — sempre che di “nuovo” vogliamo parlare –, è giusto che sia analizzato, sviscerato al massimo. Senza attenzione, è un attimo che si finisca a scoprire lobby nere, infiltrazioni della ‘ndrangheta e un quadro dirigenziale inesistente (se arrivasse un’ondata di voti, chi ci troveremmo in Parlamento? No, perché la stessa domanda è stata posta ai 5 Stelle ed è rimasta sostanzialmente senza risposta).

Perché, in fondo, Giorgia Meloni è pericolosa proprio per questo. È giovane, ma non è nuova su questo scenario. È una donna, ma rappresenta tutto ciò che il movimento femminista dagli anni ’60 in poi ha combattuto. È una Helena Mayer perfetta per il long game della destra reazionaria, che al momento buono ci ricorda comunque dove pende la bilancia dei valori (un esempio a caso qui).

Il fascismo: giusto per i famosi “puntini sulle i”

E dire che dovremmo avere imparato la lezione. 100 anni fa, questo paese è già andato incontro a questo fenomeno. Il fascismo nacque come movimento legato in realtà alla sinistra socialista, da cui veniva Benito Mussolini, all’epoca direttore dell’”Avanti!”. Di fronte a un paese lacerato dalla semi-sconfitta della Prima Guerra Mondiale, Mussolini diede vita ai “Fasci di combattimento” nel 1919.

Da Milano, in tre anni, il fascismo intrecciò rapporti con il mondo industriale italiano, garantendo una sorta di “ordine conflittuale”, con squadrismi e mobilitazioni violente. Da lì, la decisione di tentare la marcia su Roma a mò di intimidazione. Un “colpo di stato” che non era nemmeno tale — il Re avrebbe potuto fermare tutto, ma si confermò il vile che la sua reggenza finale –, visto che Vittorio Emanuele III si limitò a invitare Mussolini a Roma per formare un governo.

Quello fu l’atto che avrebbe dovuto anticipare l’“istituzionalizzazione” del Partito Fascista: un wishful thinking della peggior specie. Una volta al governo, il fascismo si è macchiato di diversi crimini: dall’omicidio Matteotti alla caccia ai nemici, dall’indottrinamento sistematico al “Manifesto della razza”, che in realtà Mussolini aveva redatto con grande partecipazione.

L’antisemitismo, la vicinanza a Hitler, la presunta grandeur imperiale che cozzava con le azioni atroce commesse nel Corno d’Africa e le mediocri performance in guerra (un invito a vedere quello che combinammo in Grecia nel 1940, con Hitler in aiuto perché non riuscivamo nemmeno a prenderci due rocce sul mare).

“If Only I Were That Warrior” è un documentario affascinante su quanto abbiamo lasciato in Etiopia.

Fatta di personalismo e culto semi-religioso, il fascismo non regalò nulla se non un generale senso di onnipotenza, non corroborato dalla realtà. In fondo, le società più forti non sono costruite sul personalismo: se così fosse, Putin avrebbe già sbancato la guerra in Ucraina, Xi Jinping non se la prenderebbe per paragoni con cartoni animati e la Corea del Nord non sarebbe il paese extra-isolato che conosciamo oggi.

Sicuramente il fascismo, in un’epoca di appartenenza e di idee ben diversa da ora, ebbe la sagacia di proporre una visione. Retrograda, sconveniente, totalizzante, ma una visione. La stessa che permise a questo movimento di rimanere in vita dopo lo sfascio della Seconda Guerra Mondiale. Abbiamo già detto di come l’amnistia graziò più di 215mila persone, ma la cosa grave fu che questi ebbero anche ruoli istituzionali alla lunga.

Di fatto, con l’Amnistia Togliatti, i movimenti fascisti sopravvissero anche negli anni ’50 e ’60. Nonostante il boom economico avesse sottratto parte della forza di questi movimenti — difficilmente si fa la rivoluzione quando si è in benessere economico, salvo che qualcuno non pensi che quel benessere debba dipendere da altri fattori –, il fascismo serpeggiava nel paese, come uno squalo che si è allontanato dalla barca, ma è sempre nel mare.

Molti ex-fascisti ebbero una casa nella Democrazia Cristiana, troppo grande per accogliere un’unica scuola di pensiero e che vedeva anche diversi correnti fortemente destroidi. Il “neofascismo” era limitato dalla Legge Scelba del 1952 — che regola l’apologia di fascismo e il divieto di ricostituzione del partito fascista nella Costituzione –, ma abbiamo parlato fino all’altro ieri di Roberto Fiore e di Forza Nuova, quindi qualcosa non ha funzionato.

Tuttavia, c’è un altro partito che ha veramente raccolto l’eredità fascista e l’ha portata avanti per tutta la Prima Repubblica.

Marce svastiche e federali / Sotto i fanali, l’oscurità / E poi il ritorno in un paese diviso / Più nero nel viso, più rosso d’amore”.

Il MSI, AN e l’evoluzione

Vista l’Amnistia Togliatti, non fu difficile per i reduci della Repubblica Sociale Italiana (o RSI, coloro che portarono avanti le ambizioni naziste dal 1943 al 1945 nel Nord Italia) riorganizzarsi e ripresentarsi. Il Movimento Sociale Italiano vide la sua figura principale in Giorgio Almirante (classe 1914), che aveva vissuto a pieno il regime fascista, da protagonista e con un ruolo di rilievo.

Tornato dalla clandestinità, Almirante fu il motore dietro la nascita del MSI, che raccolse quell’eredità. Nella sua seconda segreteria, dal 1969, Almirante sintetizzò quanto la Meloni sta ancora effettuando a cent’anni dalla nascita del fascismo: la “politica del doppiopetto”, il cui fine ultimo era rimanere bilanciati tra il mantenere l’eredità del ventennio e l’integrarsi nella Prima Repubblica. La faccio riassumere ad Almirante per semplicità:

«Il Msi non è totalitario, ma ritiene lo Stato diverso e superiore al partito, non è nostalgico, ma moderno, non è nazionalista, ma europeista, non è conservatore-reazionario, ma socialmente avanzato.»

Sembra un segretario del Partito Democratico. In bilico tra mille compromessi per avere un posto al tavolo dei grandi. Ma Almirante aveva capito che il piano avrebbe funzionato alla lunga, perché quale ferita non è lenibile con il tempo? Quello che probabilmente non sapeva è che la memoria degli italiani — all’epoca legati al voto d’appartenenza — si sarebbe erosa grazie al lavoro certosino di qualcun altro.

Infatti, il MSI fu importante nel 1971 per l’elezione di Giovanni Leone a Presidente della Repubblica e cominciò a prendersi fette importanti di elettorato (alle Politiche del 1972, il MSI prese l’8,6% alla Camera e il 9,1% al Senato). Craxi lo invitò alle consultazioni per il governo del 1983 e, quarant’anni dopo la caduta del fascismo, questo era sostanzialmente reintegrato in versione light.

Ed è qui che entra in gioco la “Fase 2”: quando cade la Prima Repubblica dopo Tangentopoli, il voto identitario entra in crisi. Il Partito Comunista Italiano va ai margini, la Democrazia Cristiana è disintegrata, il Pentapartito e i suoi governi un lontano ricordo. Allo stesso modo, anche il MSI ha bisogno di diventare altro e lo può fare solo con un volto nuovo. Quando Almirante muore nel 1988, quel volto nuovo è Gianfranco Fini.

È strano come una figura così importante — parliamo comunque di un signore che è stato Presidente della Camera, in politica per 30 anni e che è stato in Parlamento per otto legislature — sia sparito dalla scena pubblica proprio nel momento in cui la destra sta risalendo alle sue origini. Del resto, dello stesso Fini si ricordano principalmente tre cose: la lite con Berlusconi al convegno del PdL nel 2010, la famosa battuta di Stanis LaRochelle nel film di Boris e un’altra azione fondamentale.

Oh, non preoccupatevi: non è che Alleanza Nazionale — che passo dal 6% del ’92 al 16% del ’96, mantenendosi sopra il 10% fino al 2008 — non abbia contribuito allo sfascio culturale di cui Berlusconi è stato il mandante. Ricordiamo come ancora oggi la Legge Bossi-Fini sull’immigrazione è un “capolavoro di bastardaggine” (cit. Luttazzi) o che la Legge Fini-Giovanardi — che equipara droghe leggere e pesanti — è una stupidaggine dal punto di vista scientifico che fa strabordare le già precarie carceri italiani.

E non ci fermiamo qui. AN ha prodotto Altero Matteoli, colui che propose l’innalzamento dei limiti di velocità a 150 km/h sulle autostrade italiane (“Sì, è vero quando si va più forte si consuma di più, ma si sta meno in strada e quindi c’è un vantaggio anche per l’inquinamento”. Tutto vero). Ha prodotto Maurizio Gasparri (non c’è bisogno di alcuna postilla, credo).

Ha prodotto Gianni Alemanno, primo sindaco di destra a Roma dopo molto tempo e coinvolto in una marea di casi giudiziari. Ha prodotto Francesco Storace, la cui florida carriera politica mi lascia più che perplesso (Ministro della Sanità, Governatore del Lazio: sarà per il suo fiuto politico?). Ha prodotto Mario Landolfi, forse il peggior Presidente della Commissione di Vigilanza Rai della storia (e dire che la concorrenza è notevole).

Ma Fini verrà ricordato anche per un’altra cosa: il suo viaggio al Museo dell’Olocausto di Yad Vashem per rinnegare quanto i suoi “antenati ideologi” avevano fatto era un’azione lodevole sotto tanti punti di vista, ma… di fatto Alleanza Nazionale rimase senza un passato. Se il fascismo veniva rinnegato, qual era il punto di continuare a esistere? Non è un caso che Fini sia stato oggetto di astio ai funerali di Pino Rauti.

Una volta, ebbi la fortuna di essere a un convegno alla mia università sull’eredità della Seconda Repubblica, proprio poco prima delle elezioni politiche del 2013. Guarda caso, Gianfranco Fini — ormai fuori dai giochi politici — era presente nel panel. Ebbi la possibilità di fargli una domanda e, in seguito al suo intervento (in cui aveva menzionato i meriti della Seconda Repubblica), gli chiesi quali fossero i pregi più grandi di quel periodo.

Mi rispose che l’aver evitato di ripiombare in un’epoca di stragi, conflitti interni e guerra civile fredda perpetua fosse la grande vittoria di quegli anni. Non incominciai una lunga dialettica, ma a distanza di un decennio da quella mattinata, mi sento di dire che la mancanza di contrasti non indica un clima disteso, ma forse solo attutito o sonnecchiante. Proprio come il destino politico di Fini all’epoca.

Infatti, il fascismo ha trovato altre maniere di manifestarsi. Tanto ormai lo sdoganamento era stato effettuato in più sedi e con più mezzi. Berlusconi aveva già a modo suo liberalizzato il ritorno del fascismo nei palazzi delle istituzioni come supporto della sua ascesa politica. Si trattava solo di capire chi ne avrebbe raccolto i resti.

La destra vittimista

Del resto, l’avanzata dei sovranismi e degli autoritarismi su più larga scala non era una sorpresa. Si era vista lontana un miglio, a cominciare dall’Ungheria, ormai da tempo sotto giogo di Viktor Orban e persino presa come “esempio da seguire” al CPAC. L’ascesa di Bolsonaro in Brasile, l’incredibile supporto per Duterte nelle Filippine o la LePen andata due volte al ballottaggio in Francia dimostrano questo punto ampiamente.

Aaron Sorkin, in “The Newsroom”, aveva visto quest’avanzata con il binocolo.

L’esempio più lampante di questa tendenza, a mio modo di vedere, è come siano cambiati i repubblicani in America. È vero che il contesto traccia il seminato, ma vedere come il GOP sia passato dall’anticomunismo degli anni ’80 a Trump negli anni 2010 e gente associata a QAnon, al Tea Party (totalmente svuotato del suo messaggio ormai) e magliette con scritto “I’d rather be a Russian rather than a Democrat” è pazzesco.

In Italia, questa tendenza è stata incarnata soprattutto dalla Lega. Troppo multiforme il Movimento 5 Stelle (con tanti ex di sinistra al suo interno); troppo indietro Fratelli d’Italia, troppo istituzionale Forza Italia. La Lega è stata perfetta per portare avanti istanze russofone, per esempio, arrivando ai legami oscuri con Mosca e al quasi servilismo nei confronti di Putin (tutto torna indietro con il tempo, tranne i 49 milioni di euro che la Lega deve allo Stato).

Questa destra reazionaria, più autoritaria che conservatrice, va a braccetto con il vittimismo. Taccia di antidemocrazia venendo da movimenti che ne hanno fatto il loro marchio distintivo. Negli Stati Uniti, il classico “I’m just asking questions” veniva persino parodiato da Netflix in uno show di Charlie Brooker; in Italia, fare “domande scomode” con argomenti a fantoccio diventa il modo per delegittimare l’avversario a prescindere.

L’obiettivo ultimo non è trovare una risposta ai problemi che ci separano, ma solo delegittimare l’avversario con argomenti ad hominem. I repubblicani americani sono diventati quasi ossessi con questa tecnica e in Italia è ormai stata adottata da molti. E non è triste che l’intero Occidente sia in mano a una tecnica retorica sviluppata dai comunisti nella Guerra Fredda? Non è triste che il livello di argomentazione sia lo stesso della Cina autoritaria e senza democrazia?

2018–2022: Ritorno al futuro

Forse siamo quello che mangiamo, se è vero — come probabilmente lo è — che la legislatura appena conclusa è stata la peggiore di sempre. Non la più difficile: ci sono stati gli anni di piombo o gli attacchi terroristici. Non la più buia in termini economici o politici: il Berlusconi del 2001 rimane un terribile precedente, difficile da superare per perfidia. Ma proprio la più vacua, la più rappresentante del nostro paese adesso… quello sì.

C’è stato un momento in cui in questo paese sono nate le “bimbe di Giuseppe Conte”. Ci meritiamo di peggio di quant’è capitato finora.

In quattro anni e mezzo, la XVIII legislatura ha portato:

· Il Governo Conte 1, sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle, volto all’attacco all’Europa, disegnata come il nemico comune da fronteggiare, assieme ai “poteri forti” e all’immigrazione (che ancora non abbiamo risolto nonostante la Lega al governo per più di un decennio negli ultimi vent’anni).

· Il Governo Conte 2, con la metamorfosi di Conte stile Giorgio-Erik di Boris, che si risveglia amaro nei confronti di Salvini. La Lega si sfila, ma il Partito Democratico è sempre pronto quando si parla di “responsabilità” (manco fossero i cani di Pavlov). Si parte con un nuovo esecutivo, ma lo stesso presidente.

· Tutto questo dura fino al gennaio 2021, quando subentra Mario Draghi, tornato in Italia per garantire all’Unione Europea che qui non si cazzeggia. Quando oltre l’estate si intravedono la normalizzazione del COVID-19 e la conferma di Mattarella già in tasca, il Movimento 5 Stelle fa cadere il cucuzzaro non si capisce bene perché e si torna a votare in due mesi.

E dire che già il primo anno di legislatura — con Salvini ovunque, incontestabile e convinto di poter governare da solo — era stato già abbastanza. Repressione del dissenso, l’ennesimo uomo solo al comando e una politica governativa fatta di slogan senza un aggancio alla realtà. Un uomo di neanche 50 anni che è stato in politica per più di metà della sua vita e che, nonostante questo, non è in grado di capirne il funzionamento.

In tutto questo, la pandemia è stato l’elemento che ha sparigliato qualunque possibile sviluppo. Nessuno nelle nostre vite ha vissuto una paralizzazione della propria vita quotidiana come questa. Ed è stato un ottimo modo per vedere chi ha interesse di vivere in una società e chi non ce l’ha: teniamolo come memo per il prossimo giro, perché ho 33 anni e non sono sicuro che non rivivremo un momento come questo su una (si spera) lunga vita.

Poi è arrivato anche Draghi, perché i duri cominciano a giocare quando il gioco si fa duro (e noi ce lo siamo complicato il più possibile). Il fascino dell’uomo forte — una sorta di patologia che abbiamo come popolazione a livello storico — ha fatto centro anche stavolta. Indubbio che il governo Draghi abbia fatto meglio dei due esperimenti Conte, ma c’è anche da dire che la caratura internazionale ha rischiato persino di giustificare la sua possibile elezione a PdR.

L’astensionismo alle ultime politiche è stato del 27,1%, praticamente raddoppiato rispetto al 1994. Non stupiamoci se, dopo tutto questo teatrino, si dovesse innalzare fino a toccare il 30–35%. Anzi, forse sarei persino a favore di quest’ipotesi, visto che il risultato della partita delle elezioni 2022 è praticamente scritto. E la vincitrice aspetta solo l’ufficialità.

La competenza è dolorosa

Giusto per fare un riassunto tra le cariche più importanti della Repubblica di sesso femminile:

· Nilde Iotti, PCI-PDS (presidentessa della Camera dei deputati, 1979–1992)

· Irene Pivetti, Lega (presidentessa della Camera dei deputati, 1994–1996)

· Laura Boldrini, SeL (presidentessa della Camera dei Deputati, 2013–2018)

· Maria Elisabetta Casellati (presidentessa del Senato, 2018–2022)

Dalla fine di ottobre, probabilmente, avremo anche la prima presidentessa del Consiglio dei Ministri. E quel qualcuno sarà Giorgia Meloni: classe ’77, la Meloni può sembrare nuova, ma in realtà è coinvolta nel giro della politica da una vita. È diventata deputata (e vicepresidente della Camera dei deputati) a soli 29 anni, quand’è entrata in Parlamento. È diventata Ministro per la gioventù a 31, quando il Governo Berlusconi si formò nel 2008.

Ma c’è di più: Giorgia Meloni è sempre stata attiva sin da giovanissima. Il che è lodevole in realtà, ma le ha permesso anche di mantenere la sua ideologia navigando tra i cambiamenti che stavano avvenendo.

Un esempio? Nel 2008: «Basta con questa storia del fascismo e dell’antifascismo. […] Difenderemo i valori sui quali si fonda la Costituzione e che sono propri anche di chi ha combattuto il fascismo». Ci crede? Non è quello il punto per chi ascolta, ahimè.

Un esempio: una lunga intervista e un servizio realizzato nel 1996 da un’emittente francese, prima delle politiche con Alleanza Nazionale.

La Meloni si è sempre mossa in questa sfera di ambiguità. Prendete anche la posizione sulla guerra in Siria espressa qualche anno fa, con Putin che ha spesso supportato Assad per mantenere lo status quo:

“Io non sono filo-niente, non sono filo-russa, filo-americana, filo-Assad, io sono presidente di un partito politico italiano che difende l’interesse italiano e che si occupa solo di questo. Io sono solo filo-italiana. Questo significa anche”, ha proseguito Meloni, “che pur ovviamente rispettando […] la presenza all’interno della Nato che nessuno vuole discutere, dal nostro punto di vista non si scatenano delle guerre, che possono avere obiettivamente degli esiti imprevedibili, sulla base di evidenze, sulla base di ‘pensiamo che’.”.

Eppure, quel “prima gli italiani” cozza con alcune posizioni di Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo, con la necessità di mandare un segnale ai paesi del patto di Visegrad, o col fatto che la Meloni non abbia mai nascosto di vedere Orban e l’Ungheria come il punto di arrivo dell’Italia. La stessa Ungheria che continua ad assorbire risorse europee senza rispettarne le regole comunitarie. Sorry, ma non si può essere a sostegno dell’UE e di Orban al tempo stesso.

Il tempo porta (la presidenza del) consiglio?

Qualcuno potrebbe dire che la Meloni si è evoluta. Si è schierata a fianco della NATO, ha riaffermato la necessarietà di sostenere l’Ucraina nella guerra contro Putin, ha sottolineato come l’Europa sia il punto di partenza (nonostante l’euroscetticismo storico del partito). La dottrina Almirante della “politica del doppiopetto” portata all’estremo, con il beneplacito del Partito Democratico (che non affonda la Meloni nella speranza del bipolarismo totale).

E la preparazione mostrata dalla Meloni, la sua internazionalità, la sua conoscenza di quattro lingue diverse… in realtà, mi mette ancora più paura. Il fascismo di Berlusconi è stato di facciata. Il fascismo di Salvini è stato pigro, incompetente, come il suo esponente. Ma il fascismo della Meloni — re-brandizzato all’interno di un’Unione Europea già in difficoltà e sciorinato in francese, inglese e spagnolo — rischia di passare come persino affascinante.

“Noi non siamo fascisti”.

È come se l’involucro stia diventando più importante delle idee in sé per sé. E forse l’intellettuale Julius Evola l’aveva messa già nella maniera migliore:

“Il fascismo è una delle tante manifestazioni storiche del concetto più ampio di tradizione, di una società basata sui valori di gerarchia, militarismo, misticismo. In quest’ottica diventano forme di fascismo in senso lato le più disparate esperienze storiche: da Sparta e Roma alle società celtiche, nordiche e germaniche, dal Sacro Romano Impero all’Islam.”.

Non c’è quindi da stupirsi se quello che verrà proposto come nuovo sarà in realtà un ritorno al passato, un reazionarismo della peggior specie. A questo punto, non si tratta nemmeno più di fascismo o meno. Si tratta di sviscerare altri due punti: a) c’è una visione del futuro? A differenza di Salvini e Berlusconi, Meloni sembra avercela ben chiara; b) quanto questa visione farà progredire questo paese? Ecco, qui sembra cascare l’asino, ahimè.

--

--

Gabriele Anello

Ha il passaporto italiano, ma il cuore giapponese | RB Leipzig, J. League Regista, Calcio da Dietro | fmr. Ganassa, DAZN, MondoFutbol.com, Crampi Sportivi